La paura di vivere
Tremo di paura da quando sono nato
e il tremore non si addomestica.
Andrò via senza padroni,
senza soci di furbizia.
Sono qui con i fili tutti scoperti,
scrivo e vivo in bella vista,
appartengo a piccole vicende,
al vento e alla neve del mio paese.
Sono e sarò sempre fratello
degli inquieti, degli incerti.
Non mi salverà nessuno
e non salverò nessuno,
ma è bello essere liberi e appassionati,
aperti al soffio di ogni cosa:
l’anima non è nient’altro
che una rosa.
Franco Arminio
Quando è difficile confessare la propria paura, quel tremore che ci accompagna dall’inizio di questa avventura che si chiama vita. Ogni paura, come insegna Freud, in fondo è paura di morire. In ragione di ciò qualsiasi pericolo che noi avvertiamo come reale è espressione di questa paura. La paura di morire tuttavia, sostiene Jung, è in realtà paura di vivere. Si teme la vita perché iscritta in un registro di precarietà e finitudine. La paura di vivere è una realtà psicologica molto attuale che riscontro frequentemente nella mia pratica analitica laddove mi confronto con: la paura di affrontare un nuovo amore, la paura di perdere il lavoro, la paura di contrarre una malattia, la paura di rimanere soli, la paura di vivere le difficoltà legate ad un cambiamento. Tutte queste paure hanno in realtà lo stesso volto e si strutturano più facilmente nelle persone che non riescono a staccarsi dal passato e continuano a utilizzare quel modello per anticipare gli eventi futuri. Da queste paure nasce un forte senso di smarrimento. Il rischio è di morire prima ancora di vivere. La paura di morire ci fa guardare indietro invece che avanti, ci pietrifica e ci fa morire in vita, prima del tempo. Trattenendo le emozioni piuttosto che viverle ed evitando le nuove esperienze per paura di rivivere il lutto e l’abbandono che ci ancorano al passato, viviamo con un perenne senso di vuoto. La sfida reale è quella di imparare a trasformare la paura in un’opportunità di crescita. Solo quando incontriamo i nostri limiti diventiamo profondi, diceva Jung: ritroviamo le nostre radici, e dinnanzi a noi si apre la dimensione dell’invisibile. A quel punto, la morte interviene nelle nostre vite non più come elemento di disturbo ma come una presenza vivificante, un’alleanza preziosa. Per Jung la morte è meta e confine che orienta la vita e le dà uno scopo; fino all’ultimo dobbiamo vivere come se avessimo l’eternità davanti a noi.
Come insegna Hillman nella sua ultima mail: «Sto morendo, ma non potrei essere più impegnato a vivere»